Oggi l’Italia si trova ad affrontare un’emergenza sanitaria causata dall’arrivo del nuovo COVID-19, un virus appartenente alla generale categoria dei coronavirus, ampia famiglia di virus respiratori che possono causare malattie da lievi a moderate.

Il dilagare del virus, soprattutto nelle regioni del Nord Italia, ha portato il governo ad emanare, tra gli altri, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 marzo 2020, che ha come obiettivo quello di contenere la diffusione mediante l’adozione di misure stringenti e riguardanti soprattutto la mobilità.

I cittadini italiani si sono trovati costretti, così, a cambiare le loro abitudini di vita, e, con non poca confusione, a limitare gli spostamenti a quelli strettamente necessari.

L’art. 1 lett. a) del DPCM 8 marzo 2020, infatti, circoscrive la mobilità a quegli spostamenti motivati da “comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute”, nonché per il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza.

Ma proviamo a fare chiarezza, cosa vuol dire “comprovate”?

È necessario che le suddette esigenze, poste alla base dello spostamento, siano in qualche modo “dimostrabili”, per cui, se ci si sta spostando per andare a fare una visita in ospedale, ad esempio, occorrerà precisa documentazione che la attesti. Se ci si sposta per raggiungere il posto di lavoro, occorrerà una dichiarazione del datore di lavoro che attesti la sussistenza del rapporto di lavoro, la sede, e ogni altro elemento utile a tal fine.

In ogni caso, bisognerà compilare e firmare una autocertificazione contenente la provenienza, la direzione e il motivo dello spostamento.

Una volta firmata l’autodichiarazione le Forze dell’Ordine procederanno alle dovute verifiche e, nel caso in cui ravvisassero che lo spostamento non rientra nell’ambito di quelli autorizzati, potranno procedere a contestare la violazione di cui all’art. 650 c.p., che punisce l’inosservanza di un provvedimento dell’autorità.

Se, poi, quanto oggetto di autodichiarazione dovesse risultare mendace, verrà in considerazione anche l’art. 495 c.p., che punisce la condotta di chi rilascia dichiarazioni false ad un pubblico ufficiale e prevede una pena detentiva che va da un minimo edittale di 1 anno ad un massimo di 6 anni di reclusione.

Ma quali sono le conseguenze della contestazione del reato di cui all’art. 650 c.p.?

Essa comporta l’arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino a 206 euro, che, giova precisare, è cosa ben diversa da una sanzione amministrativa pecuniaria.

Nel caso in cui, infatti, il soggetto procedesse al pagamento dell’ammenda, quest’ultimo costituirebbe esecuzione della pena, con conseguente iscrizione del reato sul casellario giudiziario.

Risulterebbe, dunque, che il soggetto è stato condannato definitivamente per aver posto in essere il reato di cui all’art. 650 c.p.,con tutte le conseguenze negative che ne derivano, soprattutto in ambito lavorativo.

Cosa fare, allora, se viene contestata l’inosservanza di un provvedimento dell’autorità di cui all’art. 650 c.p.?

È utile sapere che in quel momento le Forze dell’Ordine inviteranno il soggetto ad eleggere domicilio (cioè la dichiarazione del luogo in cui si desidera ricevere le successive comunicazioni) e gli chiederanno se dispone di un Avvocato di fiducia, procedendo altrimenti alla nomina di un avvocato d’ufficio.

Occorrerà, a quel punto, attendere la notifica del decreto penale di condanna, al quale il proprio Avvocato potrà opporsi nel termine di quindici giorni.

Si prospetta la possibilità, in tal caso, di fruire dell’oblazione, che consiste nella “trasformazione” dell’ammenda in una somma di denaro fissata dal giudice e che, se concessa e pagata, avrà come effetto l’estinzione del reato.

Ma non è tutto, infatti, l’art. 4 co. 2 del DPCM 8 marzo 2020 contiene una c.d. clausola di riserva, “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, lasciando il campo, laddove se ne ravvisassero i presupposti, a reati ben più gravi di quello di cui all’art. 650 c.p.

Quali sono gli altri reati ipotizzabili?

Principalmente due, rispetto ai quali il criterio discretivo per ravvisare l’uno o l’altro è dato dall’elemento soggettivo del reato, colpa per uno e dolo per l’altro.

Laddove il soggetto sorpreso fuori casa risulti infetto, o fosse sottoposto all’obbligo della permanenza domiciliare per lo svolgimento della c.d. quarantena, il reato contestabile è quello di cui all’art. 452 c.p., che punisce una serie di condotte, commesse con colpa (ossia con imperizia, imprudenza o negligenza), in grado di attentare alla salute pubblica, e tra le quali vi è l’esplicito richiamo all’art. 438 c.p.

L’art. 452 c.p.,infatti, prevede che “chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 438 e 439 è punito: 1) con la reclusione da tre a dodici anni, nei casi per i quali le dette disposizioni stabiliscono la pena di morte; 2) con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscono l’ergastolo; 3) con la reclusione da sei mesi a tre anni, nel caso in cui l’art. 439 stabilisce la pena della reclusione…”.

Orbene, mentre per la sussistenza dell’art. 452 c.p. non si esige la creazione di un pericolo concreto per la salute pubblica, essendo sufficiente che il nocumento a quest’ultima possa conseguire a condotte che abbiano in sé la semplice “attitudine” a produrlo, l’art. 438 c.p., invece, riguarda il caso in cui qualcuno, volontariamente, provochi un’epidemia.

Quest’ultima ipotesi, che ci si augura rimanga residuale, ma che è necessario comunque tenere in considerazione, prevede che “chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo”.